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Condanna confermata per il piromane che uccise un senzatetto dopo una lite

Autore: Redazione Informazione Locale Ultima modifica: 22/07/2022 11:49:37

Sedici anni di reclusione per avere dato fuoco ad un vecchio magazzino, all’interno del quale dormiva un senza tetto di 55 anni con cui aveva discusso. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a carico di un 40enne, marocchino, difeso dall’avvocato Alberto Catalano, ritenuto responsabile dei delitti di incendio doloso e omicidio volontario, commessi il 3 luglio del 2018.

Secondo la ricostruzione accusatoria “l'imputato aveva appiccato il fuoco, con alcol denaturato, all'interno di un vecchio fabbricato dismesso sito nella via Emilia n. 2 di Umbertide, nei pressi dell'alloggio” della vittima e “con diffusa e repentina propagazione delle fiamme a più della metà dell'immobile e conseguenti crollo del tetto dell'edificio e distruzione del suo interno”. Una condotta che “aveva cagionato la morte di ... il quale, trovandosi all'interno del suo alloggio, era rimasto intrappolato tra le fiamme e il fumo ed era deceduto, come accertato dall'esame autoptico, per insufficienza cardiorespiratoria acuta da intossicazione da monossido di carbonio per inalazione dei fumi dell'incendio”.

Per la Cassazione i giudici di primo grado e di appello hanno valutato correttamente le prove, a partire “dalle plurime richieste di soccorso inviate dalla vittima al numero telefonico di emergenza ‘112’ pochi minuti prima di morire mentre veniva aggredita da terza persona, dagli accertamenti svolti dai Vigili del Fuoco e dalla polizia giudiziaria, dal testimoniale assunto, dalle riprese delle telecamere di videosorveglianza dislocate lungo le strade di Umbertide e dalle dichiarazioni rese dallo stesso imputato”.

Elementi che dimostrano “che prima dell'incendio da cui scaturì la morte di ..., imputato e vittima avevano violentemente litigato proprio in via Emilia, dov'era ubicato il vecchio opificio poi incendiato”, che “nel corso delle telefonate al 112, nell'invocare protezione da una persona che minacciava di ucciderlo, si stava riferendo ad un'aggressione in quel momento posta in essere proprio dall'imputato”. Imputato che “fu trovato con segni di ustioni ai piedi” e “aveva ammesso, in sede di udienza preliminare, di aver appiccato il fuoco nel contesto di un litigio insorto” con la vittima.

La sera del 3 luglio del 2018 “l'imputato era mosso da particolare animosità, atteso che la persona offesa, nei contatti telefonici con il ‘112’, rappresentò che una persona stava tentando di ucciderlo ed era ‘fuori di testa’”, tanto da barricarsi “in un piccolo locale per evitare il contatto con l'aggressore e da lì aveva chiamato, terrorizzato, il numero di emergenza”. Per la Cassazione “l'incendio venne appiccato in un luogo molto vicino a quello in cui era stato trovato il cadavere della vittima: o sulla porta in legno che dava accesso ai locali del primo piano o al locale sottostante; inoltre, per accedere a tale zona era necessario fare ingresso in un'ala dell'immobile diversa da quella dove l'imputato aveva la sua dimora e proseguire, poi, superando diversi spazi”.

Una scelta di appiccare il fuoco che “non era stata affatto occasionale o estemporanea, ma frutto di una maturata deliberazione e mossa dall'unico scopo di aggredire la vittima” e non si può ipotizzare che l’imputato “volesse solo spaventare la persona offesa con la convinzione che si sarebbe salvato”. Per i giudici l'imputato “era ben consapevole, conoscendo i luoghi da tempo, che il locale dove si era rifugiato” la vittima “era di contenute dimensioni e con un'unica piccola finestra, e che l'unica via di uscita era costituita dall'ingresso che dava sulle scale dove egli aveva appiccato il fuoco. Sapeva che il propagarsi delle fiamme avrebbe condotto alla conseguenza che la vittima non avrebbe avuto alcun posto dove rifugiarsi e che l'esito della sua azione sarebbe stato con certezza o con alta probabilità la morte” dell’uomo “per effetto dell'inalazione dei fumi o delle ustioni”. Ne consegue la conferma della condanna a 16 anni e quella al pagamento delle spese processuali.

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